Frammenti di guerra

 

Venerdì 7 aprile 2023 ore 17:30
presso il Laboratorio di Cultura Fotografica di Città della Pieve.

Talk con Francesco Cito  – “Frammenti di guerra”

– Città della Pieve in via Francesco Melosio 20/26 06062, Perugia.
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Rafah, Gaza Strip. Un membro di Al Fatah, leader dell’intifada, ricercato dai servizi israeliani

Frammenti di guerra
La guerra anche a raccontarla è un insieme di atrocità. La guerra porta in se le brutture più miserevoli e spietate che l’uomo non coinvolto possa immaginare. Ciò che l’uomo comune, il viandante che percorre le strade della vita di tutti i giorni, il fortunato essere che non deve scontrarsi con questa atroce realtà, difficilmente riesce a immaginare o percepire cosa essa veramente rappresenta. Puoi aver visto mille documentari, aver letto centinaia di volumi e articoli, aver guardato a migliaia di fotografie, ma tutta la documentazione possibile mai
riuscirà a trasmettere ciò che la guerra è ed esala.

 

Della guerra raccontata ciò che manca e non trasmissibile a chi la vede a distanza, è il puzzo, il fetore che impregna tutto quanto e ogni cosa. L’odore acre del fumo che si sprigiona delle cose che bruciano, quelle stesse costruite dalla mano dell’uomo; case, mezzi di locomozione, macchine da combattimento. E ancora: L’odore catramoso di cui era impregnata la fuliggine densa dei pozzi di petrolio, che a centinaia bruciavano in Kuwait durante la prima Guerra del Golfo. Quel lezzo penetrava le narici fino ad asfissiare i polmoni. Una fuliggine così fitta da oscurare il cielo a mezzogiorno come in una notte senza luna ne stelle, e, ancora il fetore degli escrementi organici, quello delle immondizie accatastate per giorni e giorni e che nessuno più rimuove. Poi ancora, l’odore acre e impregnante dei copertoni bruciati, atti a creare barricate da ultima trincea invalicabile negli scontri tra israeliani e palestinesi durante l’Intifada, o nei sommovimenti di piazza, nelle guerre civili.

Respirare l’irritante e velenoso gas dei lacrimogeni, annusando quello pungente della cipolla da inalare, unico antidoto di emergenza durante gli scontri, così asfissiante come il forte intenso e persistente odore della polvere da sparo, di certo non quello dei fuochi d’artificio delle sagre o feste patronali. A complemento di queste brutture, ”is the smell of death”, l’odore della morte, quel composto di oltre quattrocento diverse molecole chimiche, di cui la cadaverina e putrescina emanano il suo lezzo. La putrefazione dei corpi in decomposizione, abbandonati sotto il sole, l’odore aspro e vomitevole del sangue e di membra smembrate, dei corpi devastati diventati carogne del banchetto festante degli sciacalli e dei vermi. È il puzzo, il tanfo nauseabonde, che porterai dentro te stesso per sempre. L’odore di corpi senza più vita, vittime della pura follia umana, quasi sempre mandati a morire inconsapevoli di un perché. La mia prima volte al cospetto di un caduto di guerra, avvenne lungo la mulattiera che costeggiava il fiume Cunar nella omonima Regione dell’Afghanistan. Guardavo i poveri resti di quel sodato e i suoi commilitoni che insieme erano stati trucidati dai guerriglieri, quegli stessi con cui mi accompagnavo nel mio cammino nel voler raccontare la guerra. I loro corpi, le loro membra erano sparpagliati fra i rottami dei veicoli militari distrutti nell’imboscata. Era il 1980, l’anno dell’invasione Sovietica dell’Afghanistan. Caduto pochi giorni prima, consumato dagli animali selvatici, Boris il soldato russo emanava un puzzo tremendo. Era il mio battesimo con la morte. La morte impietosa della guerra. I mujaheddin con i quali sarei rimasto tre mesi, percorrendo 1200 Km a piedi tra monti e valli, non esitarono a frugare quel che rimaneva di quel soldato mandato a morire per una guerra non sua. Rovistando nelle sue tasche, trovarono quella che poi tradotta, era una lettera indirizzata a casa e firmata Boris. Iniziavo ad essere testimone della storia e del mio intento di raccontare attraverso la fotografia ciò che appariva davanti ai miei occhi. Prima di quel giorno, della guerra conoscevo la letteratura, avevo letto i classici. Nelle pagine dell’Iliade, Omero descriveva con sublime poesia gli scontri epici delle battaglie. Sotto le mura di Troia, non fu mai una guerra, ma una danza perenne tra titani, fu la discesa degli Dei travestiti per raccontare le tragedie di popoli che la storia ha voluto più grandi di quanto forse non lo fossero. Tragedie scritte più per sognare, che per riflettere gli orrori. Sogniamo e troviamo enormemente romantico quello che la cinematografia hollywoodiana ci impone.

Come cancellare dalla mente le immagini della danza guerriera tra Achille ed Ettore sotto le Mura di Troia? Immaginiamo le battaglie Napoleoniche raffigurate con alabarde e sciabole, vessilli e baionette, tra un luccicare di alamari nelle pagine epiche di Guerra e Pace di Tolstoj, o ancor più enfatizzate nei dipinti del David, che hanno trasmesso fino a noi un’idea puramente coreografica della guerra. Eppure a Waterloo cinquantamila furono i morti, le amputazioni e la cancrena avrebbero falcidiato in pochi giorni. Cinquantamila, tanti quanti furono in un sol giorno e forse più, i caduti delle legioni romane nella battaglia di Canne, nello scontro contro Annibale e i cartaginesi, quella Guerra Punica che avrebbe poi forgiato l’inizio di un impero più di duemila anni addietro. Ma da qualsiasi punto di vista la si guarda, la Guerra è ed è sempre stata un orrore. È stato orrore la campagna per l’unità d’Italia in cui non sono riportate le stragi di Bixio nei libri di storia. Orrori infiniti ancora più grandi commessi nella Seconda Guerra Mondiale, quando la follia umana ha provocato più distruzioni e morte di tutte le altre guerre messe insieme. Orrori commessi dai vincitori, alla stessa stregua di chi la guerra l’aveva provocata e mai puniti. Soddisfatti? No certamente!!! Eppure!!!!! Ciononostante, in tutti questi anni, attraverso i vari teatri di guerre e tragedie da me vissute non ci sono solo ricordi di morte, non è rimasto solo il puzzo dei cadaveri. Anche tra quelle miserie ho trovato momenti che forse conservo con più affezione di quanto non siano i ricordi dei momenti brutti. Anche nella guerra la natura emana i suoi profumi, gli aranceti in fiore nella Striscia di Gaza riempiono l’aria della primavera che esplode a dispetto di tutto. Sapori non più ritrovati, amicizie e affetti non più dimenticati. Sono ricordi non più cancellabili, di fatti belli, che a volte nell’orrore della guerra, si manifestano come per incanto. In tanta bruttura, come dimenticare il ragazzino di 13 -14 anni, combattente fedayn palestinese nel Libano delle tante guerre civili? Avanzava con il fucile a tracolla più grande di lui nel mezzo dello scontro in atto tra opposte fazioni. Con le sue mani infreddolite e il sorriso sulle labbra, mi è venuto incontro per offrirmi le caramelle tirate su dalle tasche piene, soprattutto di proiettili per il suo Kalashnikov. Posso dimenticare i guerriglieri afghani che ogniqualvolta dopo estenuanti giornate di marcia, all’arrivo in un villaggio si prodigavano per procurare il miele e soddisfare la mia golosità, dettata dalla necessità di addolcire l’amaro che il quotidiano alimentava in me.? Come dimenticare con quanta cura sono stato curato in un campo profughi palestinese, dopo essere stato ferito dai soldati israeliani durante gli scontri della prima Intifada esplosa per liberarsi dall’oppressione della occupazione? Nelle guerre non c’è poesia, ma l’umanità non sempre è totalmente sepolta dall’odio e dalla crudeltà.

 

L’uomo moderno rapportato a l’uomo descritto nei testi antichi, è più violento, è più crudele di quanto non lo fossero allora. Gli eserciti nati per creare le civiltà, si fronteggiavano nonostante la loro spietatezza guardandosi negli occhi. Le guerre si interrompevano a che fossero onorate le Olimpiadi. La Civiltà che noi crediamo di aver raggiunto, solo perché arrivati sulla luna, o creato lo smart-phone, senza però aver mai intrapreso e completato il viaggio nel nostro io più profondo, e chiederci del perché ancora oggi, la così detta nostra civiltà non sia stata in grado di debellare da noi stessi, tutta la crudeltà che ancora si annida nel genere umano. Oggi, più di quanto accadesse nel passato, gli eccidi si commettono pronunciando il falso ideologismo della parola libertà e democrazia. Quello che è accaduto in Iraq, in Siria, e ancora in Afghanistan, è figlia di questo falso concetto, mentre la verità è altrove, in interessi che nulla hanno in comune con l’abusato ordine democratico, per poi lasciare un paese come l’Afghanistan nelle mani di oscurantisti esseri per ri-azzerare le lancette della storia. Nello Yemen è in atto una guerra in cui sono già morti ventimila bambini su duecentomila vittime nel conflitto per la supremazia territoriale dell’Arabia Saudita armata dagli americani. Nel Congo quattro milioni di morti nelle guerre regionali per il controllo del “Coltan” il minerale per far funzionare le batterie degli smart-phone. Attualmente si sovvenziona una guerra che poteva essere evitata fra Russia e Ucraina, indotta da troppi interessi e futuri assetti geopolitici. In tutto questo la grande ipocrisia, si apre ai profughi ucraini, quelli che scappano per così dire con il cagnolino al seguito, e si spara o si affondano quelli provenienti dall’Afghanistan o dall’Africa. La società moderna, di questo XXI secolo sta dimostrando di essere peggiore delle precedenti, sta dando la peggior prova di se stessa. Oggi per pulire la nostra coscienza, abbiamo creato le così definite armi intelligenti. C’è forse differenza se dilaniati da un drone, o se ammazzati dal fendente di una spada? Demagogia o ipocrisia? Il mondo dei giusti è ancora da venire, la guerra è schifosa, da qualsiasi punto di vista la si guardi. sta solo ed esclusivamente a noi accettarla o rifiutarla. Tutto il resto è niente.

© Francesco Cito

 

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